lunedì 22 aprile 2013

Il vino di Merola e il Morsano di Caraglio


Domenica prossima, dopo un rinvio ancorché sofferto ma intelligente a causa di
forte maltempo, si svolgerà, finalmente, l’attesa seconda edizione della
fortunata manifestazione “Caraglio è Caraglio: vetrina dell’ingegnosità, della
creatività, dell’operosità e accoglienza del nostro ridente paese sub alpino.
Tale manifestazione è nata, sostituisce oppure prosegue, a dir si voglia, la
decennale “ Festa del vin da stop (stup)”. Festa che originava nell’intento
propositivo della rivalorizzazione dell’antica tradizione popolare contadina,
ben radicata nel nostro territorio, della conservazione del vino, tramite l’
imbottigliamento, per quei momenti importanti della vita famigliare che
segnavano l’anno che scorreva.
Una consuetudine generata nell’arcaico tempo e che la lega al rito lunare,
unito alla sacralità e alla magia della Pasqua.
Ma l’obbiettivo prefissato dagli organizzatori non era solo questo. Lo scopo
era anche quello di far conoscere quanto era consolidata e importante, da
secoli, da millenni,l’eno-viticoltura nell’economia locale, con immense aree
coltivate a vite tali da creare un panorama molto diverso da adesso. Uno
scenario che ora si vede in pochi posti delle Langhe e dell’Astigiano,
caratterizzato da lunghi e rigogliosi filari che coprivano interamente la
collina del Castello e la pianura, sino alle sponde del torrente Grana.
Della presenza, a Caraglio, della vite e della sua coltivazione si hanno
cenni antichi. Il ritrovamento di fossili di semi e foglie di questa pianta,
la scoperta negli scavi archeologici di S.Lorenzo di Caraglio di un reperto
romano di terracotta raffigurante un tralcio e dell’uva. La notizia tramandata
dalle cronache di Cuneo di Dalmazzo Grasso (1484-1570) in cui si narra dell’
eccezionale raccolta di uve da parte di contadino caragliese. E così via fino a
qualche decennio fa dove il vino caragliese acquisisce il nome “Merola”. La denominazione
dell’unico luogo dove, come un residuo di un antico ghiacciaio, resistono,
con altre e rare solitarie realtà collinari, poche e ordinate vigne.
Un nome che evoca, nei caragliesi, una certa spigolosità e una spiccata
rudezza tipica dei vini d’alpe. Certamente difficile da domare, sia nella
vinificazione, nella conservazione, che nell’approccio.
Però questi vini sono ricchi in polifenoli e di revesterolo (note molecole
antiossidanti e cardiobenefiche) data l’ubicazione in altitudine dei loro impianti (più vicini al
sole), meno alcolici e più dissetanti.
Era nota l’abitudine, peculiare dei nostri luoghi, di aggiungere delle mele mature nella vinificazione delle uve, per aumentare il grado zuccherino e aromatizzare il mosto. Anche la
conservazione era particolare. Data l’irrequietezza e la poca stabilità del
vino durante il caldo periodo estivo le bottiglie venivano interrate (lasciando
solo il collo fuori), perfettamente sigillate con cera o ceralacca, in luoghi ombrosi e nascosti dell’orto o in cantina o in sabbia .
Se poi l’annata non era stata favorevole, era uso consumare tale vino
addolcendolo e insaporendolo con delle foglie di melissa.
Tuttavia il Merola, come detto, è un nome dato recentemente e identifica il
suo superstite territorio di coltivazione e non è un vitigno ma un
assemblaggio di diverse varietà d’uva. Il vero vino caragliese derivava da uno
specifico vitigno caragliese chiamato “Morsano di Caraglio” appartenente alla
famiglia dei nebbioli piemontesi. La notizia della sua esistenza l’ho appresa
consultando un’interessante, completa e voluminosa opera scritta e curata da Girolamo
Molon e intitolata: Ampelografia – descrizione delle migliori varietà di viti per uve da vino, uve da tavola, porta-innesti e produttori diretti, Volume 2, edito dalla Hopeli nel 1906.




Pubblicazione ora depositata presso la biblioteca internazionale "La Vigna" (Centro di Cultura e Civiltà Contadina) di Vicenza e visionata grazie alla disponibilità della prof.sa Alessandra
Balestra, curatrice della suddetta importante struttura. In tale opera si fa cenno di
questo vitigno tutto nostrano e che popolava i nostri antichi vigneti.
Una buona notizia che può regalare ottime prospettive per il nostro paese.
La ricerca continua, si sta recuperando del materiale da antiche vigne locali
grazie alla preziosa disponibilità dei proprietari e, nel contempo, per
ricordare ai prossimi ho in progetto,nelle mie possibilità e se trovo collaborazione, l’elaborazione di una pubblicazione che raccolga le testimonianze dei nostri reduci e coraggiosi viticoltori, ormai solitarie sentinelle di una grande tradizione.
Saranno gli ultimi? Io credo, io spero di no.

Lucio Alciati



Il Marrone di Caraglio ritrovato.



Le castagne a Caraglio, come in tutte le altre valli e luoghi circostanti, hanno avuto un ruolo fondamentale nella passata economia e, in molti casi, nella sopravvivenza famigliare.

Su di loro sono nate ricette, aneddoti,mercati e manifestazioni, narrazioni e proverbi che hanno tipicizzato i luoghi della sua coltura.

Ad esempio, nel caragliese, uno di questi proverbi diceva che A San Lorens la castagna dovesi grosa coma na grana ‘d frument” (A S.Lorenzo -10 agosto-la castagna doveva essere grande come un seme di grano) a significare che, se era così, l’annata scorreva favorevole e nel giusto ritmo naturale.

Oppure le vecchie ricette, semplici, di come cucinare le castagne.

Bollite, fresche, in acqua bollente un poco salata, pelate o con la buccia(barote), arrostite (mondai) lasciandole covare, avvolte in una coperta e consumate, dopo la cena, specialmente nella serata dedicata alla recitazione del rosario, coi parenti, per i propri defunti nell’appuntamento annuale a loro dedicato ( 2 novembre) In tale occasione era tradizione lasciare, per la notte seguente, sul tavolo della cucina un poco di “mondai” e un bicchiere di vino novello locale chiamato “Merola” perché proveniente dalle vigne locali (Merola era , ed è ancora adesso, il luogo di coltivazione di queste viti)per i morti che ritornavano in visita dall’aldilà. Curiosa era la creazione di rosari usando le castagne. E, ancora lessate (quelle essiccate nei secou-seccatoi per il consumo invernale), chiamate “bianche”, nella “bronza” (paiolo di bronzo)sempre in acqua, poi scolate e stufate nella stessa bronza, coperte da pezzi di giornale cosicché assumevano una crosta superficiale croccante. Venivano poi gustate accompagnate da un mestolo di latte freddo con poco sale. Una ricetta tipica della sua valle (la Valle Grana) erano le “liguéttes” ovvero le medesime castagne secche bianche cotte con poca acqua, per ore, sulla stufa fino ad assumere una consistenza morbida. Si mangiava pure il brodo di cottura e si diceva che il gusto pareva cioccolata.

Anche il mercato serale (quello caragliese è uno dei più antichi ed importante del cuneese) era ed è, attualmente in minor misura,economicamente e socialmente utile per gli scambi cultural-colturali che si manifestano in tale occasione. Esistono mercuriali locali,della prima metà dell’ottocento, in cui vengono quotate le castagne “ in emine” (antica misura).

E le feste conosciute come “castagnate” le quali coinvolgono molte persone, nel periodo autunnale. A Caraglio è tradizione, da molto tempo, festeggiare la castagna arrostendola in piazza la terza settimana d’ottobre per distribuirla poi ai numerosi avventori, tra il fumo acre del fuoco di cottura. Alcuni anni fa, nell’ambito di tale festa, si esponeva una mostra di antiche varietà di castagne e di prodotti da lei derivati. Si era iniziata la rivalorizzazione e promozione della castagna Siria, tipica di Caraglio e della Valle Grana, ottima come caldarrosta , squisita essiccata: integra o in farina per dolci e pani speciali. Attualmente, tale festa è legata all’appuntamento autunnale della manifestazione “di Filo in Lana”, dedicata alla lana e ai suoi tessuti.

Tuttavia il castagno non donava solo le provvidenziali castagne. Infatti il suo legno era usato per la fabbricazione delle ceste-cestini-sabaco (cesta da spalla) utilizzando i ricacci (le scobie), cotti nel forno, pelati e tagliati a listarelle. Il valore calorico di questa legna era modesto a causa dell’eccessivo contenuto di tannino per cui era indispensabile il taglio, lo spacco dei ceppi e dei tronchi e la loro esposizione alla pioggia,per diverso tempo, affinché questa spurgasse l’abbondante acido. Ma il tannino si dimostrava utile nella preservazione dei pali e le attrezzature contadine, fabbricati con quel legno, dai marciumi e dall’usura.

Come i tini, le botti, i mastelli, i mobili, le travi, le bigonce, le mangiatoie per i bovini, ecc. Infine, quel tannino, era una anche una risorsa economica in quanto il legno di castagno (specialmente quello selvatico) veniva venduto alle officine di estrazione di tale principio per l’industria chimica.

Le varietà di castagno da frutto coltivate, in antichità e ancora ora (esistono esemplari di 500 anni di età) nel territorio caragliese, in particolar modo sulle colline delle frazioni di Paniale, di Bottonasco, del Castello, di Paschera S.Carlo e, specialmente, nella conosciuta e vocata Vallera, erano:

le Tempurive,le Cervaschine (una variante delle Tempurive), le Rubiere, le Sirie (per la produzione della castagna secca e bianca), i Gentili, i Garroni rossi e neri, le Brunette, le Rossette, le Pajasse (un’antichissima varietà con pochissimi esemplari viventi), le pelose (ottime bollite) oltre a quelle di recente impianto (Bracalle).

Tuttavia pochi, anzi pochissimi, oggi, sono a conoscenza che nei boschi della Vallera di Caraglio veniva coltivato e, spero viva ancora, un ottimo marrone locale: il delizioso Marrone di Caraglio.

La sua storia è affascinante per le qualità eccezionali che gli erano riconosciute e per l’importanza internazionale che ha avuto non più di un secolo fa. Ma, nel contempo, triste e sfortunata per le storture e confusioni linguistiche che lo hanno relegato nel limbo dei dimenticati, nella notte senza luce.

La ricerca è stata, ed è tutt’ora appassionante, come la lettura di un libro che racconta di un vanto, di un’eccellenza perduta e piacevolmente ritrovata. Come recita il motto del casato che porta il mio cognome: “le tort ne dure” – il torto non dura. Una ricerca che, spero, porti alla sua riscoperta con l’identificazione di un qualche testimone ancora vivente in questi magnifici boschi. La storia, quindi,continua.

Essa inizia quando, grazie alla segnalazione di un amico (Aurelio Pellegrino) che mi informò di una pubblicazione del 1917, riedita nel 1934, intitolata: “Les plantes alimentaire chez tous les peuples et a travers le age” scritta da Désiré Bois su cui veniva citato: Le Marron de Vallere de Caroglio, d’Italie” descrivendolo in tal modo: “ est aussi un fruit de grandes dimensiones, excellent pour le table et pour l’industrie; sa chair est ferme e trés sucrée”.

E’ evidente storpiatura linguistica del nome di provenienza del marrone.A parte la stretta assonanza si citano le Vallere, luogo specifico di Caraglio. Inoltre la località Caroglio pare, da una ricerca internet, non esista sul territorio italiano.

Continuando l’indagine ho appreso, dalla pubblicazione “Tra i castagni del cuneese” redatta ad opera del prof. Giancarlo Bounous con la collaborazione di Anna De Guarda Bounous, edita da Metafore di Cuneo, che nell’opera di Figiani del 1919 l’autore cita un Marrone di Garoglio descrivendolo “frutto brillante, bruno rosso chiaro a raggi regolari e ben netti; punta piccola e poco pelosa; stilo corto, cicatrice media a contorno irregolare, buccia di medio spessore, spesso con crepature orizzontali; pellicola sottile; polpa dura, molto zuccherina”. Una descrizione che ricalca quella espressa dal Désiré Bois e dal nome simile ma ancora ulteriormente storpiato (la G invece della C) che riporta al nome di Caraglio anche perché la località citata in quel modo pare che esista neppure sul territorio cuneese (neanche italiano).

Ma, finalmente, la prova provata che il marrone citato dalle suddette pubblicazioni si riferiva al dolce Marrone di Caraglio viene dalla scoperta del catalogo della esposizione e congresso intitolato ; “Châtaigne et châtaignier, exposition, congrés, di Limoges”avvenuta il 29-30-31 ottobre-1-2 novembre 1910, edito dalla Société Gay Lussac, dove viene citata, in modo corretto, la provenienza caragliese dell’eccellente marrone suddetto, descrivendolo in tal modo “ Chair ferme et tré sucrée, Bogne ayant parfois jusqu’à trois fruits de premiere grosseur: Arbré cultivé à Caraglio, province de Cuneo. Le maron est une sous –varieté de Sardonne trés appreciée des confiseurs et des gourmets – Italie.” Dove, anche qua la descrizione e perfettamente simile alle già succitate.

Da quell’esposizione di Limoges il nome di Caraglio venne storpiato in Caroglio e successivamente in Garoglio, relegando in tal modo,ingiustamente, quel ricercatissimo marrone, nell’orfanotrofio dell’eccellenze maldestramente perse per errore umano.

Lucio Alciati