venerdì 12 luglio 2013

Cuchèt: i sensuali biscotti tipici di Caraglio

Un’anziana contadina , dallo sguardo solare come una tiepida giornata primaverile, un giorno, nel piacevole discorrere delle antiche consuetudini agresti, mi ha narrato una novella dal sapore quasi fiabesco, legata al nostro territorio e alle nostre tradizioni.
Mi ricordo che, nel raccontarla, i suoi occhi ancora freschi e cristallini, brillavano di emozione e contraddicevano le profonde rughe del volto che parevano solchi arati di un campo stanco della stagione passata.
Pressappoco la storia inizia così:
"Un tempo molto lontano in una piccola cascina spersa nella pianura caragliese viveva una minuta ragazzina con la sua matrigna e come tutte le favole di questo Mondo, la matrigna era dispotica e senza cuore.
Abitavano sole e conducevano, non senza fatica, quella piccola fattoria composta da due floride mucche, un grasso porcello, un vecchio asino, alcune ruspanti galline accompagnate da un irascibile gallo e pochi, sfuggevoli, conigli. Più in là, in posizione assolata, tre rustici alveari erano avvolti da ronzanti e operose api e in un capanno vicino, specialmente verso sera, si udiva il brucare vorace dei bachi da seta. Il tutto era controllato da un arruffato cane di razza sconosciuta, guardingo e sospettoso.
Dietro la cascina si estendeva un fazzoletto di terra che era per metà coltivato a mais, cereali, ortaggi, qualche melo Gamba Fina e qualche pero Bure Roca e per l’altra metà adibito a pascolo.
In quel pascolo spiccavano, maestosi, dei gelsi dalla fronda rada come il capo di uomo anziano. Era una condizione dovuta dalla continua raccolta delle foglie, da parte dell’agile ragazzina incalzata dalla tirannica matrigna, indispensabili nell’alimentazione dei famelici "bruchi setaioli" del loro piccolo allevamento."
Un tipo di allevamento molto diffuso nel nostro areale, in quella lontana epoca, e di grande importanza per la parca economia contadina. I bozzoli prodotti dai bachi, chiamati localmente "cuchèt, venivano proficuamente venduti a mediatori o commercianti di passaggio o, più frequentemente, nelle fiere e nei mercati.
Una di queste si teneva a Caraglio ed era a frequentatissima, sicuramente la più importante.
Ed è proprio tale atteso appuntamento che fu causa, quella volta, di questo singolare fatto.
" Era luglio e si avvicinava il giorno della vendita dei bozzoli di seta alla Fiera della Madonna del Castello di Caraglio ma, due giorni prima dell’agognato evento, l’acida matrigna venne avvertita, da certi parenti di Torino, della scomparsa di una sua vecchia sorella e che il funerale si sarebbe svolto proprio il pomeriggio del giorno antecedente la fiera. Il viaggio, allora, era lungo e difficoltoso e non sarebbe riuscita ad arrivare in tempo per preparare i cuchèt per la fiera. Tuttavia sarebbe arrivata nella notte della vigilia della manifestazione e avrebbe potuto presenziare e commercializzare il prodotto in quel giorno fondamentale.
Incaricò quindi, con veemenza condita da qualche sibillina minaccia, la brava ragazzina di occuparsi della raccolta e preparazione dei bozzoli in modo che, al suo arrivo, fossero pronti per il mercato.
La vispa ragazzina, quasi incredula e felicissima di sfuggire per un poco di tempo dall’asfissiante morsa della sua noiosissima matrigna, attese che la nera figura femminile sparì all’orizzonte, poi emise un gran sospiro di sollievo.
Le ore passavano liete e finalmente, dopo lo svolgimento dei lavori che le attendevano, poteva giocare e fantasticare com’era normale per la sua giovanissima età, dimenticandosi, però, completamente dei bozzoli.
Il tempo, senza accorgersene scorreva, scivolava velocemente e il momento del ritorno della vecchia arpia si avvicinava inesorabilmente.
Finché, verso sera, accadde che il cane,scorgendo una volpe gironzolare nei pressi del capanno, si mise ad abbaiare rabbiosamente. La ragazzina svelta, scattò verso l’edificio, entrò e nel vedere i bozzoli ancora da raccogliere si ricordò, con un fremito di paura, della fiera e della matrigna.
Incominciò freneticamente a raccogliere i bozzoli e a disporli nella cesta. Ma, a causa della fretta, nel tragitto verso casa inciampò e , nel cadere, una parte dei bozzoli finì nel ruscello pieno d’acqua. In un batter d’occhio quei cuchét sparirono tra i rapidi flutti.
Ohibò come fare?
Pensa e ripensa l’intelligente fanciulla, tra i pensieri nefasti su cosa poteva succedergli quando la matrigna fosse tornata, gli venne un’idea: magari balzana,forse audace però possibile.
Doveva fabbricare dei bozzoli falsi che ingannassero la vecchia dispotica. Inoltre la megera non aveva la vista buona, non se ne sarebbe accorta.
Prese della farina di mais, che era gialla come i bozzoli e la setacciò.
Aggiunse dei tuorli di uova raccolte dalle galline ormai rintanate nel pollaio per creare l’impasto: se la matrigna si fosse accorta della loro mancanza poteva dare la colpa al rubalizio di una fantomatica volpe.
Però non bastava, l’impasto si disfaceva.
Aggiunse, quindi del miele che aveva nascosto durante la smielatura dei favi.
L’impasto cominciava ad essere consistente ma non era ancora modellabile.
Ci vuole del burro, pensò. Il burro è un buon legante però ce n’era poco e la matrigna si sarebbe accorta… .
Allora munse un poco di latte per mucca, lo versò in un’albarella di vetro e cominciò a sbatterlo finché diventò burro. Il siero avanzato lo avrebbe messo assieme al latte della prossima mungitura così la megera non si sarebbe accorta di niente.
Aggiunse il burro ed ecco che l’impasto diventò lavorabile.
Con quella pasta modellò, sul palmo della mano, dei cuchèt però erano fragili e si sfaldavano. Che fare?
Altro lampo d’ingegno; bisognava cuocerli.
Accese il piccolo forno del pane e lo scaldò ad una temperatura moderata. Non doveva bruciarli o provocare dorature eccessive. Dovevano rimanere gialli come il sole, come i bozzoli veri.Tuttavia i cuchèt non erano solo gialli ma anche bianchi, quindi, con lo stesso procedimento, sostituendo la farina di mais con farina di frumento, ne preparò altri.
Li lasciò cuocere lentamente, li lasciò raffreddare e quelli bianchi, per renderli più candidi e simili ai veri, li passò ancora nella farina di frumento. Infine li mischiò con gli altri cuchèt ben disposti nel cesto, pronti per la vendita.
La matrigna arrivò, stanca, a notte fonda. Lanciò uno sguardo assonnato alla ragazza e ai bozzoli.Non si accorse di niente e se ne andò, brontolando come il suo solito, a dormire.
Il mattino dopo,al canto dell’irascibile e stonato gallo, la vecchia e la bambina si svegliarono già agitate e dopo aver assolto le faccende della fattoria si avviarono alla Fiera di Caraglio, con il prezioso fardello pronto per essere venduto.
La giornata era meravigliosamente serena e il caldo era reso sopportabile da un leggero e piacevole alito di vento.
Già molta gente, vociante e curiosa, affluiva verso la via centrale del paese, tra tante bancarelle e divertimenti, al che la matrigna, a quella vista, squittendo come un topolino pregustava, felice, un buon guadagno.
E in quell’eccitazione espose per bene la sua merce, sempre e comunque rimbrottando la povera fanciulla.
Tutto procedeva al meglio, la matrigna non si era accorta dei cuchèt fasulli. Era quasi fatta.
Ma ecco che, nel momento migliore, a riprova del detto : il "diavolo fa le pentole ma non il coperchio" disgraziatamente si avvicina, alla cesta dei bozzoli, un cane randagio. Questo ne infila il suo umido naso, annusa e addenta un cuchèt e se lo mangia con gusto.
Apriti cielo, la matrigna sbigottita strabuzza gli occhi e capisce al volo che qualcosa non va. Controlla i bozzoli e scopre quelli falsi. Molto simili ma falsi.
Volano urla, strepiti, insulti all’insegna della spaventatissima fanciulla raggomitolata su se stessa in un angolino della piazza.
All’udire quel gran baccano accorse una moltitudine di visitatori e, tra questi, un distinto signore il quale aveva assistito da poco lontano alla drammatica scena. Incuriosito, si chinò sulla cesta dei bozzoli ormai sparsi per terra, afferrò un cuchèt incriminato e lo assaggiò, rimanendo sbalordito dal gusto così buono.
In quel momento, il galantuomo, si accorse che la matrigna, impazzita dalla rabbia, stava levando il braccio verso la sempre più terrorizzata ragazza e la bloccò con decisione e sveltezza.
Si rivolse, con sguardo pacato, alla fanciulla e le propose di assumerla come persona di servizio per la sua grande e nobile casa di Torino. In cambio, però, desiderava che lei continuasse a preparagli quei deliziosi biscotti gialli e bianchi: i Cuchèt di Caraglio.
Lei accettò e da quel dì visse felice e contenta.
La matrigna invece rimase sola con la disperazione di una tetra emarginazione, piena di paure e rimorsi, rimpiangendo il tesoro perduto.
Lucio Alciati
 

lunedì 22 aprile 2013

Il vino di Merola e il Morsano di Caraglio


Domenica prossima, dopo un rinvio ancorché sofferto ma intelligente a causa di
forte maltempo, si svolgerà, finalmente, l’attesa seconda edizione della
fortunata manifestazione “Caraglio è Caraglio: vetrina dell’ingegnosità, della
creatività, dell’operosità e accoglienza del nostro ridente paese sub alpino.
Tale manifestazione è nata, sostituisce oppure prosegue, a dir si voglia, la
decennale “ Festa del vin da stop (stup)”. Festa che originava nell’intento
propositivo della rivalorizzazione dell’antica tradizione popolare contadina,
ben radicata nel nostro territorio, della conservazione del vino, tramite l’
imbottigliamento, per quei momenti importanti della vita famigliare che
segnavano l’anno che scorreva.
Una consuetudine generata nell’arcaico tempo e che la lega al rito lunare,
unito alla sacralità e alla magia della Pasqua.
Ma l’obbiettivo prefissato dagli organizzatori non era solo questo. Lo scopo
era anche quello di far conoscere quanto era consolidata e importante, da
secoli, da millenni,l’eno-viticoltura nell’economia locale, con immense aree
coltivate a vite tali da creare un panorama molto diverso da adesso. Uno
scenario che ora si vede in pochi posti delle Langhe e dell’Astigiano,
caratterizzato da lunghi e rigogliosi filari che coprivano interamente la
collina del Castello e la pianura, sino alle sponde del torrente Grana.
Della presenza, a Caraglio, della vite e della sua coltivazione si hanno
cenni antichi. Il ritrovamento di fossili di semi e foglie di questa pianta,
la scoperta negli scavi archeologici di S.Lorenzo di Caraglio di un reperto
romano di terracotta raffigurante un tralcio e dell’uva. La notizia tramandata
dalle cronache di Cuneo di Dalmazzo Grasso (1484-1570) in cui si narra dell’
eccezionale raccolta di uve da parte di contadino caragliese. E così via fino a
qualche decennio fa dove il vino caragliese acquisisce il nome “Merola”. La denominazione
dell’unico luogo dove, come un residuo di un antico ghiacciaio, resistono,
con altre e rare solitarie realtà collinari, poche e ordinate vigne.
Un nome che evoca, nei caragliesi, una certa spigolosità e una spiccata
rudezza tipica dei vini d’alpe. Certamente difficile da domare, sia nella
vinificazione, nella conservazione, che nell’approccio.
Però questi vini sono ricchi in polifenoli e di revesterolo (note molecole
antiossidanti e cardiobenefiche) data l’ubicazione in altitudine dei loro impianti (più vicini al
sole), meno alcolici e più dissetanti.
Era nota l’abitudine, peculiare dei nostri luoghi, di aggiungere delle mele mature nella vinificazione delle uve, per aumentare il grado zuccherino e aromatizzare il mosto. Anche la
conservazione era particolare. Data l’irrequietezza e la poca stabilità del
vino durante il caldo periodo estivo le bottiglie venivano interrate (lasciando
solo il collo fuori), perfettamente sigillate con cera o ceralacca, in luoghi ombrosi e nascosti dell’orto o in cantina o in sabbia .
Se poi l’annata non era stata favorevole, era uso consumare tale vino
addolcendolo e insaporendolo con delle foglie di melissa.
Tuttavia il Merola, come detto, è un nome dato recentemente e identifica il
suo superstite territorio di coltivazione e non è un vitigno ma un
assemblaggio di diverse varietà d’uva. Il vero vino caragliese derivava da uno
specifico vitigno caragliese chiamato “Morsano di Caraglio” appartenente alla
famiglia dei nebbioli piemontesi. La notizia della sua esistenza l’ho appresa
consultando un’interessante, completa e voluminosa opera scritta e curata da Girolamo
Molon e intitolata: Ampelografia – descrizione delle migliori varietà di viti per uve da vino, uve da tavola, porta-innesti e produttori diretti, Volume 2, edito dalla Hopeli nel 1906.




Pubblicazione ora depositata presso la biblioteca internazionale "La Vigna" (Centro di Cultura e Civiltà Contadina) di Vicenza e visionata grazie alla disponibilità della prof.sa Alessandra
Balestra, curatrice della suddetta importante struttura. In tale opera si fa cenno di
questo vitigno tutto nostrano e che popolava i nostri antichi vigneti.
Una buona notizia che può regalare ottime prospettive per il nostro paese.
La ricerca continua, si sta recuperando del materiale da antiche vigne locali
grazie alla preziosa disponibilità dei proprietari e, nel contempo, per
ricordare ai prossimi ho in progetto,nelle mie possibilità e se trovo collaborazione, l’elaborazione di una pubblicazione che raccolga le testimonianze dei nostri reduci e coraggiosi viticoltori, ormai solitarie sentinelle di una grande tradizione.
Saranno gli ultimi? Io credo, io spero di no.

Lucio Alciati



Il Marrone di Caraglio ritrovato.



Le castagne a Caraglio, come in tutte le altre valli e luoghi circostanti, hanno avuto un ruolo fondamentale nella passata economia e, in molti casi, nella sopravvivenza famigliare.

Su di loro sono nate ricette, aneddoti,mercati e manifestazioni, narrazioni e proverbi che hanno tipicizzato i luoghi della sua coltura.

Ad esempio, nel caragliese, uno di questi proverbi diceva che A San Lorens la castagna dovesi grosa coma na grana ‘d frument” (A S.Lorenzo -10 agosto-la castagna doveva essere grande come un seme di grano) a significare che, se era così, l’annata scorreva favorevole e nel giusto ritmo naturale.

Oppure le vecchie ricette, semplici, di come cucinare le castagne.

Bollite, fresche, in acqua bollente un poco salata, pelate o con la buccia(barote), arrostite (mondai) lasciandole covare, avvolte in una coperta e consumate, dopo la cena, specialmente nella serata dedicata alla recitazione del rosario, coi parenti, per i propri defunti nell’appuntamento annuale a loro dedicato ( 2 novembre) In tale occasione era tradizione lasciare, per la notte seguente, sul tavolo della cucina un poco di “mondai” e un bicchiere di vino novello locale chiamato “Merola” perché proveniente dalle vigne locali (Merola era , ed è ancora adesso, il luogo di coltivazione di queste viti)per i morti che ritornavano in visita dall’aldilà. Curiosa era la creazione di rosari usando le castagne. E, ancora lessate (quelle essiccate nei secou-seccatoi per il consumo invernale), chiamate “bianche”, nella “bronza” (paiolo di bronzo)sempre in acqua, poi scolate e stufate nella stessa bronza, coperte da pezzi di giornale cosicché assumevano una crosta superficiale croccante. Venivano poi gustate accompagnate da un mestolo di latte freddo con poco sale. Una ricetta tipica della sua valle (la Valle Grana) erano le “liguéttes” ovvero le medesime castagne secche bianche cotte con poca acqua, per ore, sulla stufa fino ad assumere una consistenza morbida. Si mangiava pure il brodo di cottura e si diceva che il gusto pareva cioccolata.

Anche il mercato serale (quello caragliese è uno dei più antichi ed importante del cuneese) era ed è, attualmente in minor misura,economicamente e socialmente utile per gli scambi cultural-colturali che si manifestano in tale occasione. Esistono mercuriali locali,della prima metà dell’ottocento, in cui vengono quotate le castagne “ in emine” (antica misura).

E le feste conosciute come “castagnate” le quali coinvolgono molte persone, nel periodo autunnale. A Caraglio è tradizione, da molto tempo, festeggiare la castagna arrostendola in piazza la terza settimana d’ottobre per distribuirla poi ai numerosi avventori, tra il fumo acre del fuoco di cottura. Alcuni anni fa, nell’ambito di tale festa, si esponeva una mostra di antiche varietà di castagne e di prodotti da lei derivati. Si era iniziata la rivalorizzazione e promozione della castagna Siria, tipica di Caraglio e della Valle Grana, ottima come caldarrosta , squisita essiccata: integra o in farina per dolci e pani speciali. Attualmente, tale festa è legata all’appuntamento autunnale della manifestazione “di Filo in Lana”, dedicata alla lana e ai suoi tessuti.

Tuttavia il castagno non donava solo le provvidenziali castagne. Infatti il suo legno era usato per la fabbricazione delle ceste-cestini-sabaco (cesta da spalla) utilizzando i ricacci (le scobie), cotti nel forno, pelati e tagliati a listarelle. Il valore calorico di questa legna era modesto a causa dell’eccessivo contenuto di tannino per cui era indispensabile il taglio, lo spacco dei ceppi e dei tronchi e la loro esposizione alla pioggia,per diverso tempo, affinché questa spurgasse l’abbondante acido. Ma il tannino si dimostrava utile nella preservazione dei pali e le attrezzature contadine, fabbricati con quel legno, dai marciumi e dall’usura.

Come i tini, le botti, i mastelli, i mobili, le travi, le bigonce, le mangiatoie per i bovini, ecc. Infine, quel tannino, era una anche una risorsa economica in quanto il legno di castagno (specialmente quello selvatico) veniva venduto alle officine di estrazione di tale principio per l’industria chimica.

Le varietà di castagno da frutto coltivate, in antichità e ancora ora (esistono esemplari di 500 anni di età) nel territorio caragliese, in particolar modo sulle colline delle frazioni di Paniale, di Bottonasco, del Castello, di Paschera S.Carlo e, specialmente, nella conosciuta e vocata Vallera, erano:

le Tempurive,le Cervaschine (una variante delle Tempurive), le Rubiere, le Sirie (per la produzione della castagna secca e bianca), i Gentili, i Garroni rossi e neri, le Brunette, le Rossette, le Pajasse (un’antichissima varietà con pochissimi esemplari viventi), le pelose (ottime bollite) oltre a quelle di recente impianto (Bracalle).

Tuttavia pochi, anzi pochissimi, oggi, sono a conoscenza che nei boschi della Vallera di Caraglio veniva coltivato e, spero viva ancora, un ottimo marrone locale: il delizioso Marrone di Caraglio.

La sua storia è affascinante per le qualità eccezionali che gli erano riconosciute e per l’importanza internazionale che ha avuto non più di un secolo fa. Ma, nel contempo, triste e sfortunata per le storture e confusioni linguistiche che lo hanno relegato nel limbo dei dimenticati, nella notte senza luce.

La ricerca è stata, ed è tutt’ora appassionante, come la lettura di un libro che racconta di un vanto, di un’eccellenza perduta e piacevolmente ritrovata. Come recita il motto del casato che porta il mio cognome: “le tort ne dure” – il torto non dura. Una ricerca che, spero, porti alla sua riscoperta con l’identificazione di un qualche testimone ancora vivente in questi magnifici boschi. La storia, quindi,continua.

Essa inizia quando, grazie alla segnalazione di un amico (Aurelio Pellegrino) che mi informò di una pubblicazione del 1917, riedita nel 1934, intitolata: “Les plantes alimentaire chez tous les peuples et a travers le age” scritta da Désiré Bois su cui veniva citato: Le Marron de Vallere de Caroglio, d’Italie” descrivendolo in tal modo: “ est aussi un fruit de grandes dimensiones, excellent pour le table et pour l’industrie; sa chair est ferme e trés sucrée”.

E’ evidente storpiatura linguistica del nome di provenienza del marrone.A parte la stretta assonanza si citano le Vallere, luogo specifico di Caraglio. Inoltre la località Caroglio pare, da una ricerca internet, non esista sul territorio italiano.

Continuando l’indagine ho appreso, dalla pubblicazione “Tra i castagni del cuneese” redatta ad opera del prof. Giancarlo Bounous con la collaborazione di Anna De Guarda Bounous, edita da Metafore di Cuneo, che nell’opera di Figiani del 1919 l’autore cita un Marrone di Garoglio descrivendolo “frutto brillante, bruno rosso chiaro a raggi regolari e ben netti; punta piccola e poco pelosa; stilo corto, cicatrice media a contorno irregolare, buccia di medio spessore, spesso con crepature orizzontali; pellicola sottile; polpa dura, molto zuccherina”. Una descrizione che ricalca quella espressa dal Désiré Bois e dal nome simile ma ancora ulteriormente storpiato (la G invece della C) che riporta al nome di Caraglio anche perché la località citata in quel modo pare che esista neppure sul territorio cuneese (neanche italiano).

Ma, finalmente, la prova provata che il marrone citato dalle suddette pubblicazioni si riferiva al dolce Marrone di Caraglio viene dalla scoperta del catalogo della esposizione e congresso intitolato ; “Châtaigne et châtaignier, exposition, congrés, di Limoges”avvenuta il 29-30-31 ottobre-1-2 novembre 1910, edito dalla Société Gay Lussac, dove viene citata, in modo corretto, la provenienza caragliese dell’eccellente marrone suddetto, descrivendolo in tal modo “ Chair ferme et tré sucrée, Bogne ayant parfois jusqu’à trois fruits de premiere grosseur: Arbré cultivé à Caraglio, province de Cuneo. Le maron est une sous –varieté de Sardonne trés appreciée des confiseurs et des gourmets – Italie.” Dove, anche qua la descrizione e perfettamente simile alle già succitate.

Da quell’esposizione di Limoges il nome di Caraglio venne storpiato in Caroglio e successivamente in Garoglio, relegando in tal modo,ingiustamente, quel ricercatissimo marrone, nell’orfanotrofio dell’eccellenze maldestramente perse per errore umano.

Lucio Alciati


mercoledì 27 febbraio 2013

Cipolla di Costigliole di Saluzzo


Luna vecchia di febbraio, luna buona per le semine di piselli, scalogno, cipolle, aglio rosa e sopratutto delle cipolle. Specialmente della cipolla piatta di Costigliole, probabile sorella della conosciuta Piatlina di Andezeno ma forse, a parer mio, ancor più buona e delicata. Bionda come il sole era diffusissima negli orti delle nostre nonne. Di lunga conservazione, dall'aroma dolce, affascinate e coinvolgente indicava una cucina dal sapore tradizionale. Mi ricordo che il suo profumo, che prometteva sapore intenso e stuzzicante, aleggiava nella cucina fino ad invadere, in modo seducente, la strada adiacente, cogliendo e attraendo golosamente il passante. Gusti antichi, pieni, introvabili, che rimandano la memoria a un tempo fatto di cose buone e genuine.

Io ho la fortuna di sentire ancora questa fragranza, quando mia moglie la soffrigge per un buon sugo o un ottimo risotto, perchè la coltivo grazie al recupero della sua storica semente.

Infatti la bionda di Costigliole non è più comune come una volta. Si può trovare, ma raramente, da anziani e gelosi produttori di Busca o di, appunto, Costigliole.

Trovo strano che questi comuni e specialmente Costigliole, sua patria natia, non la valorizzino come meriterebbe ma la relegano al ricordo sfocato.

Perfino un vecchio detto, che così dice:“ Costiòle 'l pais del siole e del fie mòle” - Costigliole il paese delle cipolle e delle ragazze molli, la lega a quella terra e a tutta la piana pedemontana delle valli Varaita, Maira e Grana.

Ora Caraglio vuole adottarla ed è ritornata, come un tempo, in qualche suo orto e, se la stagione sarà buona, al mercato contadino locale.

Comunque sia ricordatevi che la cipolla , qualsiasi a giorno lungo e cioè di maturazione estiva, deve essere seminata nella luna buona di febbraio.

Lucio Alciati

venerdì 8 febbraio 2013

Il Tartufo nero

Venerdì 01 febbraio, alle 20.00 del crepuscolo, nell’affascinante atmosfera del Filatoio di Caraglio, si è svolta  una mitica”sei mani” dei migliori cuochi della Valle Grana che hanno proposto, esaltato, esternato, interpretato la particolare grazia del nostro Tartufo nero.

Una sapore che dona delicatezza e sensazioni, che sa di caldi boschi e di fresca alba. Che, a differenza del tartufo bianco, deve esser ricercato, svelato e goduto come un eccitante premio per i nostri sensi cacciatori.

Il tartufo nero della Valle Grana non è un aroma che da effluvi quasi invadenti e così facilmente imitabili artificialmente. Il tartufo nero è un ingrediente che tiene gelosamente

in se, come in uno scrigno, la sua virtù per poi esprimersi al meglio, con la sua particolare unicità, nella giusta collocazione culinaria.

Bisogna usarlo sapientemente, con grande semplicità, e non solo aggiungerlo e trattarlo da semplice ospite, ma coinvolgerlo in cucina.

Solo così, in un lampo di calore tra cielo e terra, darà il meglio di se stesso. Un gusto lieve ma ineguagliabile.


Matteo del Ristorante da Elisa, Lele della Trattoria il Castello e Poldo del Ristorante il Portichetto, in quella serata magica, hanno condotto i simpatici commensali  tra i segreti di questo particolare e misterioso fungo sotterraneo dal carattere selvatico e timido.


Si dice che il tartufo nero sia il cibo preferito dei piccoli sarvan e che il carattere sia uguale. Io non lo so ma se così fosse la cosa non mi stupirebbe.


Il resto, che dire?

Provare per credere.


Lucio Alciati

Barbarià: antica coltivazione della Valle Grana

La scorsa estate, presso un terreno dell’azienda agro didattica e biologica Cascina Zumaglia sito in via Due Bealere, nel comune di Caraglio, si è svolta la mieti trebbiatura del Barbarià. L’appezzamento in questione è stato coltivato dalla Fattoria dell’aglio nell’ambito del progetto bio sostenibile e agro tradizionale della rotazione temporale necessaria per la produzione dell’aglio di Caraglio. Come è ormai risaputo la coltivazione del nostro aromatico e gentile bulbo richiede una turnazione minima quadriennale: cioè il terreno che lo ha ospitato, per i quattro anni successivi, dovrà essere impiegato per altre coltivazioni o lasciato a riposo, pena la sua buona riuscita quali-quantitava.

Il progetto, messo in atto con la collaborazione del Consorzio di tutela, prevede, per l’appunto, l’impiego e la rievocazione, in questa rotazione, di antiche coltivazioni tradizionali, un tempo presenti nei nostri areali e ora purtroppo cadute, con i loro sapori, nell’oblio del ricordo.

Una di queste è proprio il Barbarià.

Il Barbarià, appellativo che deriva probabilmente da imbarbarito – imbastardito, era un’antica tecnica che prevedeva la semina autunnale di una miscela composta da semi di grano (60%) e segale (40%). La sua coltivazione, nel 1800, era così importante da essere citata nei mercuriali locali,come “barbariato”, ed era soggetta a tassazione e controllo annonario alla stregua degli altri cereali. Non è quindi, come credono in molti, la semplice mistura delle due farine attuata all’atto dell’impasto nel panificio o laboratorio di pasticceria (la farina di barbarià è ottima nella produzione dei biscotti) dove i gusti vengono amalgamati artificialmente, ma in campo dove gli aromi e le particolari caratteristiche scaturiscono anche dalla naturale impollinazione incrociata delle due razze. Si trattava, allora, di un metodo che consentiva alla popolazione montana e pedemontana di ottenere una farina da pane più digeribile di quella che veniva prodotta con la sola segale. Infatti, specialmente negli anni del 18.mo e 19.mo secolo, a causa delle temperature rigide che caratterizzavano quell’epoca (piccola glaciazione), la coltivazione del grano risultava difficile e non tutte le annate erano propizie. L’unico cereale resistente e che dava raccolti stabili a quelle condizioni era la segale: ma produceva un pane nero e abbastanza indigesto.

Tuttavia la necessità aguzza l’ingegno e i nostri bravi antenati cominciarono a seminare un misto di grano e segale cosicché, se l’annata correva favorevole, alla fine ottenevano una farina particolare, buona e sostanziosa, se, invece, l’annata risultava difficoltosa e comprometteva lo sviluppo del grano (come detto più sensibile alle avversità climatiche) raccoglievano comunque la segale,utile per la loro sopravivenza.

Nella prova sperimentale, condotta dalla nota Fattoria dell’aglio e dal Consorzio di Tutela, che ha visto la semina sul suddetto terreno (circa una giornata di terreno) di una miscela di semi di grano biodinamico dell’antica varietà Gold Corn e di Segale proveniente dall’Austria, si è constatato un ottimo decorso del ciclo vegetativo (spettacolare l’altezza raggiunta dalle piante), una importante resa (14 ql.) considerando la produttività di queste vecchie varietà e la tecnica di coltivazione biologica e, specialmente, un’ottima qualità del prodotto raccolto. Ora non ci resta che assaporarla, specialmente nella pasticceria secca.


www.fattoriadellaglio.itLucio Alciati

Progetto Mireio

Nell’inverno 2009, durante una visita di lavoro presso l’azienda agricola
della
nota insegnante Anna Arneodo di bta marchion della frazione S.Lucia di
Monterosso Grana, sono venuto a conoscenza di una mela prodotta da un
piccolo
ma antico melo che vive in un prato lì vicino, a circa 1200 m.s.l.m.(un’
altitudine comunque notevole anche per la vegetazione dei meli)
Il frutto, di colore giallo e dalle sfumature rosse si presentava ancora
turgido e teso benché la stagione invernale fosse già avanzata. Il gusto era
profumato e dolce, la polpa bianca e croccante.
La primavera successiva mi sono recato nuovamente da Anna Arneodo per
prelevare, da quel piccolo melo, delle marze da innestare. Cosa che ho
potuto
fare grazie alla sua gentile concessione. La pianta madre, a prima vista, pare
non
sia stata innestata.

In quel frangente mi è venuta l’idea, nel caso che questa mela risultasse
una
varietà sconosciuta, di chiamarla Mireio (come sai Mirella in lingua occitano-
provenzale) in
onore a Frederi Mistral, grande poeta provenzale, visto che la pianta madre
vive in questo territorio dell’area occitano provenzale.
Poi, nel corso di un tour nel Trentino e nell’alto Adige, vedendo l’
organizzazione frutticola e agricola di quei luoghi e il suo notevole
sviluppo
sia economico che turistico, ho capito che tale evoluzione era dovuta si
alla
capacità tecnica degli agricoltori ma soprattutto dalla promozione legata ai
famosi marchi che identificano il prodotto (Melinda, Marlene) . Non nomi
tecnici che rispecchiano le caratteristiche del frutto (gialla, rossa) o le
cultivar (golden, stark ecc) ma nomi che catturano l’attenzione, particolari,
simpatici e capaci di creare popolarità .
Allora mi sono chiesto se ciò sarebbe fattibile anche da noi. Io credo di si
e
forse con dei valori aggiunti in più se adottassimo un nome legato alla
nostra
lingua e alle nostre tradizioni come può essere appunto Mireio, come marchio
promozionale per la squisita mela coltivata nelle valli Grana e Maira,
Infatti questo nome non solo identifica il frutto con il territorio di
coltura
ma trasmette importanti segnali che rimandano alla cultura locale come la
tradizione linguistica, geografica e storica delle nostre valli. Un forte
legame di grande impatto promozionale economico e , specialmente, turistico
come è successo per le mele trentine.
Naturalmente l’adozione del nome dovrebbe avvenire a seguito della creazione
di un consorzio o di un’associazione di tutela dove verrebbero coinvolti i
produttori, i commercianti e gli enti territoriali. Un organismo di sola
attività promozionale e di valorizzazione, che non si occupi direttamente di
commercializzazione la quale è di libera iniziativa dei produttori. Tuttavia
quella commercializzazione dovrebbe adottare il marchio e divulgarlo con il
proprio
prodotto (bollini, depliant, etichette) per raggiungere i fini preposti
(ricercatezza del prodotto e quindi economici per il produttore e promozionali
per il territorio e la comunità).
D’altro canto l’organismo di tutela coordinerà la promozione con interventi
di
diffusione mediatica, congressuale, di informazione e di raccordo con enti
pubblici e privati con lo scopo di rendere popolare il frutto e la sua terra d’
elezione.
Disponiamo di importanti vantaggi: l’ottima qualità delle mele coltivate, le
valli fortunatamente incontaminate, le montagne e un forte legame con le
tradizioni e le tipicità della nostra valli.
Tentar non nuoce, anzi. Mal che vada si è almeno cercato di fare qualcosa di
utile.


Il Progetto:
a) riunione informativa con gli interessati ed illustrazione del progetto
b) costituzione di un consorzio o associazione di promozione e
valorizzazione
delle mele coltivate nelle Valli Grana e Maira. (di cultivar moderne e
antiche)
che coinvolga produttori, commercianti e enti locali pubblici e privati.
c) Adozione del marchio identificativo
d) Elaborazione di un semplice disciplinare in cui vengano dettate delle
fondamentali regole (territorio di coltivazione e uso del marchio solo su
mele
prodotte nell’ambito territoriale prescritto)
e) Promozione:
1) mediatica (carta stampata,sito internet ecc.)
2) espositiva (partecipazione a manifestazioni tematiche ecc)
3) materiale pubblicitario (depliant)
4) identificazione prodotto (bollini su mele, etichette, ecc)
5) creatività
Sarebbe importante l’appoggio e se possibile, la regia, della Comunità
Montana per ciò che rappresenta ( trasmette fiducia, unità di territorio,il
fascino della montagna e della cultura della gente di montagna – è un punto
di
riferimento ).



Lucio Alciati

La pera Madernassa della Valle Grana

E’ abbastanza frequente leggere, sentire,vedere su giornali e riviste, nel
web e
nei ricettari, notizie ed immagini riguardanti la pera Madernassa.
Ne sono descritte le qualità, il gusto, le ricette, il territorio e la sua
storia.
Tuttavia non si riferiscono alla pera Madernassa in generale ma alla pera
Madernassa
del Roero, di Guarene d’Alba. E questa differenza traspare anche nel prezzo.
Infatti nei luoghi suddetti si spuntano quotazioni di mercato ben superiori a
quelli ottenuti per la Madernassa coltivata nella nostra Valle. Quindi è
facile
dedurre che tale frutto non deve ancora essere considerato “finito” e
relegato
nel limbo delle produzioni destinate all’inesorabile estinzione ma deve
essere
qualificato,ovvero promosso per le sue peculiarità.
Alcuni operatori del settore giustificano il maggior prezzo a causa delle
diverse caratteristiche morfologiche del frutto e, nello specifico,della
“rugginosità” della buccia. Un aspetto gradito al consumatore. Questa stessa
varietà (perché si parla di stessa varietà) in Valle Grana, per le
condizioni
pedoclimatiche diverse, assume invece una colorazione fresca, verde con
simpatiche sfaccettature rosse. Probabilmente quest’aspetto induce allo
stesso acquirente una sensazione di durezza, freddezza e difficoltà nella
cottura. Sappiamo che non è così ma questa verità non è conosciuta e sarebbe
compito di chi abita e coltiva in Valle Grana riuscire a comunicarla al
consumatore, informandolo delle ottime specificità date da un territorio, com’è
il nostro, montano e ancora incontaminato.
A parte le voci di settore (che devono esser sempre prese per quelle che
sono)
le quali raccontano di tecniche che favoriscono la comparsa della ricercata
rugginosità sulla buccia di queste pere tramite l’uso frequente di
trattamenti
“irritanti” con zolfo o verderame, credo che sia invece proprio la promozione
il
punto di forza del successo della Madernassa di Guarene.
Infatti è intensamente rappresentata e sostenuta dall’amministrazione comunale
e dalle
associazioni locali , con ottimi risultati, nella
tutela e soprattutto nella valorizzazione.
Optima Roero, Slow food , manifestazioni a tema e,
soprattutto informazione, cucina, territorio e tradizione: queste sono
state,
sono e saranno sempre di più le loro carte vincenti.
Ma,poi, chi ha detto che quella pera Madernassa è migliore? I mezzi di
informazione, i cuochi e la gente del luogo.
Allora perché i Valgranesi, gente vivace ed intraprendente nel settore dell’
agricoltura di qualità, non creano un gruppo di persone, un’associazione che
sostenga questa coltura tradizionale e che sappia far conoscere, attraverso
i
mezzi sopradetti e ad un pubblico sempre più vasto le speciali peculiarità di
questa
nostra produzione locale?
Una produzione che ha dato tanto alla nostra Valle e che può ancora dare
molto. Un frutto che ha ispirato numerose semplici ricette come, ad esempio,
quella buona, facile e salutare che sapeva la mia nonna materna.
Prima di preparare le micche e le micóle di pane metteva da parte un poco di
pasta .Con questa pasta formava dei salamini o cordoncini ( un po’ come si
fa
per gli gnocchi). Prendeva le pere Madernassa dell’albero vicino a casa e ne
avvolgeva ognuna con uno dei
salamini suddetti. Fatto ciò venivano zuccherate e infornate con il pane.
Diventava una semplice, sostanziosa e gustosa merenda per i bambini.
Lucio Alciati

Söfran: lo zafferano di Caraglio e della Valle Grana



Lo Zafferano, da notizie storiche, veniva coltivato nel medioevo sulle colline del Marchesato di Saluzzo, territorio in cui , a quei tempi, era compreso anche Caraglio.


Tuttavia il dato più inconfutabile è la presenza, nell’elenco della “ Prima esposizione agraria-industriale-artistica della provincia di Cuneo” avvenuta nel 1870, di un produttore di Zafferano di Caraglio di nome Delpuy Antonio. Ciò a testimoniare una coltivazione già in essere allora.


Pare inoltre sia stato premiato per la qualità del prodotto.

Alcuni anni fa, un nostro conosciuto conterraneo, Mauro Rosso, reintroduceva sull’altura di S.Giovanni di Caraglio, tale prezioso fiore aromatico, ottenendo ottimi risultati qualitativi; stimolando, in tal modo, un marcato ed entusiastico interesse da parte di alcuni agri-cultori che ne hanno intrapreso la coltivazione.

Allo stato attuale lo Zafferano caragliese è prodotto, con antica manualità, da 8 realtà, non solo di Caraglio ma anche di Bernezzo e altri luoghi della Valle Grana, con medesimo successo. E’promosso con il nome Söfran in rispetto al capitano Ottavio Gallo, già sindaco di Caraglio nei primi anni del ‘900,perché così indicato, nel dialetto locale nella sua opera: “200 piante medicinali della Flora Pedemontana coll’aggiunta dei nomi in vernacolo piemontese”, edito nel 1917 e ripubblicato in versione anastatica nel 2008. Un nome caragliese, dato da un illustre caragliese per un ottimo prodotto caragliese e della sua valle.

Lucio Alciati

La mela Gamba Fina

 Nel 1800 nacque  proprio nel nostro territorio una fantastica  mela dalle  peculiarità senza uguali, ottima in ordine di gusto, conservabilità, colore e resistenza alle malattie, tanto da renderla giusta per una sua coltivazione redditizia e in sintonia con le  esigenze del consumatore. Questa mela venne chiamata “Gamba Fina” per il caratteristico peduncolo sottile. Caragliese di origine, come ebbe a sostenere il noto e preparatissimo prof. Nino Breviglieri nel suo trattato del 1950: Elenco per Provincia delle varietà di melo diffuse fino al 1929, in produzione o non in produzione nel 1948 e preferite nei nuovi impianti. Atti del III Congresso nazionale di Frutticoltura e Mostra di frutta, Ferrara, 9-16 ottobre, 1949, è di forma appiattita e buccia lisca di colore giallo-verde di fondo e rosso scuro in superficie.
 Ha polpa bianco crema, di struttura fondente, tessitura fine e delicato sapore dolce. Probabilmente da un soggetto caragliese nacque una varietà migliorata , che si sviluppò nella frazione Famolasco nel comune di Bibbiana (To) e divenne pianta madre sviluppando , nel corso degli ultimi decenni, numerosi nuovi innesti per future piante.
Poco tempo fa presso un conosciuto ipermercato di Cuneo, nel settore ortofrutta, ho notato la presenza di confezioni di vendita contenenti quattro mele “Annurca” della Campania con tanto di logo e descrizione del prodotto e informazioni sul suo territorio di coltivazione (promozione). Ho comprato una di queste (non dico il prezzo!) le ho osservate, le ho mangiate (buone) e, poi, ho inserito in quella confezione quattro ottime Gambe Fine acquistate da Torino Silvio di Bottonasco (Caraglio).
Così disposte facevano ottima figura al pari, se non di più, di molte altre famose mele. Allora mi sono detto perché non possiamo fare così anche noi? Da parte mia ho incominciato ad innestare, a Gamba Fina, 40 moderni meli per una futura e buona produzione dal gusto sincero.
(La Gamba Fina caragliese fa parte del Presisio Slow Food antiche mele piemontesi)
Lucio Alciati
 
 

La patata Ciarda

www.piatlinaeciarda.comLa patata Ciarda origina dalla varietà Desirèe ed era già coltivata, sulle nostre montagne (valli occitane), negli anni ‘70 del secolo scorso. Veniva autoriprodotta in azienda e scambiata fra le famiglie Il suo nome deriva dal colore rosso della sua buccia e perché non si concede facilmente al palato (ciarda, nel linguaggio montanaro piemontese, significa anche monella, dispettosa). Infatti, dopo la raccolta, ha bisogno di un periodo di tempo per maturare o "stagionare" (almeno tre mesi) per poi rilasciare tutta la sua particolare e inimitabile bontà, che perdurerà fino a primavera. Questa patata Incontrò da subito il favore dei produttori perché ben si adatta al nostro clima fresco e ai terreni leggeri tipici della montagna. Da questi fattori, la Ciarda, ne trae i migliori benefici in gusto e qualità. E’ ottima: nella preparazione dei gnocchi (vuole minor quantità di farina), fritta e arrostita.

La Patata Piatlina



La Piattlina, ottima bollita e indicatissima per la produzione di patate fritte, della purè, nelle minestre e minestroni (come la tipica ola piemontese -minestrone di porri, patate e fagioli cotto, in vaso di coccio chiuso, nel forno dopo il pane) di gnocchi, dalla polpa bianchissima come la neve e dal gusto sublime, è una antica varietà di patata locale, un tempo ampiamente coltivata sui nostri monti. Poi l’arrivo di nuove cultivar più produttive e la sua contemporanea degenerazione causata da virus dovuta
alla autoriproduzione aziendale del suo “seme” ha fatto si che scomparisse quasi del tutto. Ora, con la paziente ricerca presso i rari produttori superstiti e grazie alla collaborazione di tante persone sensibili alla riscoperta di antichi gusti locali, la rivalorizzazione di questo generoso tubero, pare possibile. Da qui è nata la libera Associazione per la promozione, tutela e valorizzazione dell'antica patata locale Piattlina e della patata Ciarda della Valle Grana. www.piatlinaeciarda.com

L'aglio di Caraglio (aj 'd Caraj)

La coltivazione dell’aglio a Caraglio era confinata negli orti famigliari, nelle vigne della zona della collina del Castello e altre zone limitrofi. La produzione in eccesso veniva venduta nei mercati contadini di un tempo. Purtroppo le vigne, che nel passato avvolgevano tutta la collina e gran parte della pianura ai suoi piedi, per varie cause come il benessere e l’emigrazione dei contadini verso le fabbriche (redditi più sicuri e stabili) nonché per le difficoltà logistiche di coltivazione date dalla localizzazione dei terreni in luoghi difficili ,vennero abbandonate, divelte e lasciate alla mercé della natura. Con loro sparirono anche le coltivazioni intercalari quali, appunto, l’aglio, la lenticchia, la sciola dla coa (cipolla della coda).
Poi, come è risaputo, l’aglio degenera rapidamente se coltivato senza rotazione agraria e nel medesimo terreno per più anni: una pratica anch’essa abbandonata.
Alla fine dell’aglio di Caraglio , sino a circa dieci anni fa, veniva ricordata solo più una conosciutissima filastrocca popolare che veniva rivolta, con ironia, verso questo paese e i suoi abitanti: a Caraj l’an piantà ij aj, l’an nen bagnaj e ij aj son secaj (a Caraglio hanno piantato l’aglio, non lo hanno bagnato e l’aglio è seccato). Un altro vecchio detto caragliese molto comune e che, indirettamente, testimonia radici antiche e conosciute dell’aglio in zona
è l’indicare, in dialetto, la giovane età di una persona: Giov ma ‘n aj (giovane come un aglio).
Ma tutto questo non venne mai collegato alla sua passata coltivazione ortense. Fino a che, un giorno, colloquiando con un agricoltore caragliese, purtroppo deceduto alcuni anni fa prematuramente per una grave malattia (Emanuele Borgogno), sulla bontà delle vecchie e tradizionali coltivazioni, mi citò della conosciuta delicatezza e, nel contempo, aromaticità e dolcezza dell’aglio di Caraglio.
E’ significativo che, benché lui abitasse a Busca (è una cittadina vicina a Caraglio) si facesse portare dell’aglio coltivato a Caraglio da suo fratello. Da quel momento(era la primavera del 2003) ho iniziato a ricercare e a scoprire che l’aglio lo piantava già la mia nonna materna in collina, mia madre e altra gente. Mi dissero che lo piantavano nel tardo autunno e, se nevicava, in febbraio (‘n bon ajè pianta ‘l aj a fëvre – un buon agliaio pianta l’aglio a
febbraio –altro detto locale).
Mi è stato raccontato che, appena raccolto, il mazzo veniva lavato velocemente nella bealera (ruscello) e appeso in luogo ventilato, luminoso ma non assolato.
In quello stesso anno, con l’Associazione Insieme per Caraglio (pro loco) si diede vita ad una manifestazione con l’intento di rivalorizzare e di ricordare l’intimo legame tra Caraglio e aglio, non solo culturalmente ma anche colturalmente : Infatti questa manifestazione si intitolò, da subito : Aj a Caraj – quando la festa sa di aglio.
Poi nel tardo autunno del medesimo 2003 ho iniziato delle coltivazioni sperimentali per capire e verificare quanto avevo recepito dalle varie testimonianze ormai sfumate dall’ oblio del ricordo.
I risultati furono da subito incoraggianti e il prodotto rispondeva esattamente alle particolari e interessanti caratteristiche che mi erano state dette dal buon Emanuele Borgogno.
Il terreno locale, fresco e povero di solfati e le condizioni climatiche date dalla immediata vicinanze delle montagne donando all’aromatico bulbillo caragliese le peculiarità sopracitate.
Da lì, cautamente ma con grande determinazione, si procedette al coinvolgimento sperimentale di alcuni piccoli produttori per una esigua produzione e di pari passo a una incisiva promozione con partecipazione a fiere tematiche e incontri con altre realtà “aglicole” italiane (Resia, Voghiera, Paceco Nubia, …).Innanzitutto con Vessalico e Govone. Il percorso non è stato scevro da inconvenienti, non colturali o qualitativi, ma causati da una parte della popolazione la cui reazione era scettica e mal informata da antagonismi personalistici e commerciali. Fortunatamente con la perseveranza, l’informazione, il far toccare con mano anzi con il palato il nostro aglio e senza cadere in stupide e dannose diatribe, si sta rapidamente dissolvendo quest’aurea di scetticismo.
Nel luglio 2008 si è formato un Consorzio di promozione, tutela e valorizzazione (attualmente è composto da 17 soci coltivatori, di cui sono presidente pro-tempore. Nel novembre dello stesso anno è nata una Confraternita (una cinquantina di confratelli e consorelle) con finalità promozionali, gastronomiche e culturali nei confronti dell’aglio caragliese.Ha un proprio sito (www.confraternitadellagliodicaraglio.it).


La coltivazione dell’aglio di Caraglio è regolata da un disciplinare approvato dall’assemblea dei soci che impone una coltivazione in armonia con l’ambiente, senza diserbo chimico, limitata nei confini territoriali di Caraglio e una lavorazione rispettosa delle tradizioni . Ad esempio non effettuiamo diserbi chimici ma solo fisici quali la zappa per gli appezzamenti più piccoli, la motozappa e il pirodiserbo (cioè l’eliminazione delle infestanti per mezzo del fuoco). La concimazione è organica (letame) e, per quanto è possibile e disponibile, ci forniamo di letame bovino dagli allevamenti di Castelmagno (così impieghiamo un concime organico di “eccellenza” e collaboriamo con le aziende montane nello smaltimento dello stesso, vista la loro impossibilità ad impiegarlo a causa delle difficoltà territoriali). Viene anche impiegata la cenere di legna in quantità ridotte. I trattamenti fitosanitari prevedono l’uso del Bacillus T. e, in caso di malattie fungine, l’ossicloruro di rame. Alcune aziende sono iscritte al sistema biologico, altre no tuttavia anche quest’ultime seguono i dettami dettati della metodologia biologica e del bio integrato. L’asciugatura, l’essiccatura e la conservazione avviene tramite l’apposizione dei mazzi in pendeis (pannelli) o altro, in luogo ventilato, asciutto, luminoso ma non al sole diretto. La pulizia e il confezionamento dell’aglio è manuale. (www.consorziodellagliodicaraglio.it)

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AJ A CARAJ - QUANDO LA FESTA SA DI AGLIO 2013
Si sta avvicinando uno degli appuntamenti più graditi ed attesi nel panorama delle produzioni tipiche regionali.

Il 16 e 17 novembre prossimi si svolgerà l’undicesima edizione dell’affascinante ed avvolgente kermesse del buon gusto tradizionale: Aj a Caraj, celebrazione di un simbolo popolare.

Sono passati undici anni dai primi vagiti di quell’aromatica riscoperta: l’aglio di Caraglio. Un figlio della nostra terra da cui ha ereditato le migliori qualità.

Raffinatezza, dolcezza e unicità lo contraddistinguono dalla massa tanto da essere quotato, in alcuni casi, presso negozi di èlite in grandi città, a prezzi smodati  che, tuttavia,  denotano ricercatezza e passione. Ed è già oggetto di brutta imitazione, con pseudonimi ingannevoli e coltivazioni artificiali, svolte anche fuori territorio e di dubbia provenienza.

E’ lo scotto di un gradimento sempre più crescente e di una rapida ascesa verso l’Olimpo delle migliori produzioni tipiche nazionale. Tanto da essere stato iscritto nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali (P.A.T) della Regione Piemonte e ad essere preso in considerazione da Slow Food, inserendolo in una affratellante Comunità del cibo di Terra Madre.

Un Consorzio con un disciplinare semplice, rigido e trasparente, analisi di laboratorio che garantiscono l’assenza di inquinanti,il controllo della filiera produttiva  da parte di un esperto valido tecnico, esterno e super partes ,  promozione ad alti livelli, rete di vendita capillare e diretta su tantissimi mercati tipici regionali ed extraregionali, trasformazione alimentare, informazione telematica con siti internet e informazione giornalistica, hanno fatto si che si raggiungessero inaspettati e importantissimi obiettivi.

Ma ritorniamo alla festa 2013 che propone un programma di altissimo impegno organizzativo.

Si inizia, sabato 16, presso il rinnovato Pelerin di piazza Cavour, alle fatidiche 17,17, con la degustazione guidata dell’aglio di Caraglio a cura del giovane chef caragliese Michele Chiapale. Seguirà l’accattivante concorso fotografico “ Caraglio nel dett’aglio”. Alle 20.00, presso il suddetto Pelerin, una sontuosa e fragrante bagna caoda allieterà i palati dei buongustai.

Il giorno dopo, domenica 17, dalle 9 del mattino alle 18, lungo la strada e la piazza centrale del paese si terrà l’attesa “mostra- mercato- degustazione dell’aglio di Caraglio e di numerose e rare tipicità. Tra abbondanti ortaggi e frutta di qualità, amabili mieli e formaggi aromatici , stuzzichevoli salumi e vini profumati si potranno reperire delle rare eccellenze del nostro territorio.

Come il delicato antico fagiolo bombonino, piccolo, dalla candida buccia, tenerissima e digeribilissima, adatto al forno o nel coccio piemontese. Oppure la gustosa lenticchia della Valle Grana che rivive nei nostri areali e le patate Piattine e Ciarde dei coltivatori dell’Associazione di tutela di Monterosso Grana. O, ancora, il Söfran ovvero il riscoperto, delizioso, Zafferano di Caraglio e della Valle Grana e i piccoli e saporiti porri quarantini, anche detti di montagna o di Montemale. Poi il borlotto nano Reginotto della Vallera, appositamente spaccato, come vuole l’antica tradizione, per una cottura rapida, anche senza preventivo ammollo, in suadenti minestroni. E le farine della tradizione: il pregiato Barbarià o Barbariato, la farina pignoletto per un’ottima polenta, il grano saraceno, il farro e tantissimo altro ancora.

Tante peculiarità che entrano nel ciclo della salutare rotazione dell’aglio nostrano.

Nell’intermezzo della festa, alle 12,00 verrà fortunatamente riproposta la gentile bagna caoda caragliese, presso il suddetto Pelerin.

Il pomeriggio sarà allietato da danze occitane dei Segurana, condite da fragranti caldarroste.

Al termine, gran finale con l’investitura di nuovi confratelli e, a seguire, appassionate corteo della Confraternita dell’aglio lungo la via principale.

Quindi, ai buongustai, agli amanti della tradizione, ai contadini, ai gastronomi, a tutta la gente che mangia e sa che quello che mangia diventerà parte di se stesso, appuntamento il 16 e 17 novembre 2013, a Caraglio. Siete tutti aromaticamente invitati.

Info: associazione Insieme per Caraglio 0171619816