L’etimo, il
significato del suo nome, ha probabili origini medioevali allor quando i monaci
benedettini stanziati nell’antico priorato di S.Maria della Valle, nel riportare il credo
cristiano dopo le terribili scorribande saracene, iniziarono una importante
bonifica del territorio circostante, divenuto, per l’abbandono, fitta
roncaglia.
Le terre
diedero soddisfazione nella produzione di superbo grano, tanto da proferirgli
l’importante nome. Quel grano non inteso
solo come frumento, in quel periodo di primaria importanza, ma anche di segale,
avena,orzo, spelta,miglio,farro, sorgo. Cioè di granaglie.
Immaginate
una biondeggiante distesa, un manto dorato che copriva l’intero territorio come
un luminoso mare baciato da un caldo sole.
La bassa e
media valle, da Caraglio fin verso
Monterosso, tranne la zona Palazzasso e le Paschere, perché le prima coperta da
una fitta foresta che si estendeva sino a Busca e le seconde sedi di pascoli e
gerbidi, divenne un vero e proprio granaio che, probabilmente, forniva, per mezzo dei suoi numerosi molini,
le ricercatissime farine all’intero Marchesato .
Farine che
dovevano essere di ottima qualità, adatte
per profumati pani e per sostanziose polente.
Già perché
il termine polenta nasce molto prima dell’arrivo del mais nelle nostre zone. Si
produceva con il miglio,il sorgo, l’orzo o tutti i cereali misti fra di loro.
Ma qual’erano
le varietà coltivate?
Il miglio, il
sorgo, la segale, l’orzo, l’avena, lo spelta non erano identificati con nomi
precisi, forse perché reputati cereali minori di qualità.
Al contrario
i frumenti antichi erano già catalogati con dei nomi che li
contraddistinguevano e venivano dati, prevalentemente, in ragione delle loro
caratteristiche fisiche (rosso,bianco, grosso ecc).
E in Valle
Grana?
Nella nostra
valle abbiamo la fortuna di riscontrare antiche pitture, come fotografie del passato, che
ritraggono, anche se poco nitidamente, questi cereali.
E’ il caso
dell’antico stemma del comune di Valgrana, peraltro chiamato così in quanto
fulcro e capitale di questa vallata, dipinto sulla facciata della bellissima
cappella di S.Bernardo, sita lungo la via che va a Montemale.
E’ il più
antico, che io sappia, riferimento e prova di un florido passato cerealicolo
della nostra piccola valle dove già la sua conformazione, incredibilmente,
ricorda la spiga.
Ebbene
questa immagine che ci giunge dal lontano
1400 raffigura tre spighe riunite che, guardando bene, potrebbero indicare tre diverse granaglie,
allora coltivate. A sinistra si può
scorgere una spiga con tracce di reste,
tipiche della segale o di tutti i cereali restati al centro campeggia una spiga
a ferro di lancia che, anche per i colori, ricorda il sorgo, a destra spicca una spiga
senza reste, peculiarità di un tipo di
grano ampiamente coltivato nel medioevo chiamato calbigio (calvo). Quindi
questo, presumibilmente, era il frumento
coltivato in antichità nella Valle Grana, comunque molto diffuso, in
quell’epoca, in tutt’Italia.
In Lombardia
lo chiamavano Tosello, in Toscana Calvello, nel sud Carusello e in Piemonte
Bertone, proprio per l’assenza delle reste o peli sulla spiga.
Era di
taglia eretta e robusta e produceva
un’ottima farina, bianchissima e povera di glutine.
Si estinse
dai nostri luoghi forse a causa del
repentino abbassamento delle temperature, causato dalla storica piccola era
glaciale che, in passato, investi l’Europa
e culminò nelle formidabili e memorabili
gelate del periodo 1700-1850.
Infatti, in
quel periodo, in valle Grana, si
sviluppò enormemente la coltivazione della segale a scapito di altri cereali,
perché più resistente al freddo. In alcuni casi veniva mischiato al frumento invernale, sperando in
annate più miti affinché si potesse
ottenere una farina, chiamata Barbariato, (imbastardito), per pani più
digeribili.
Tuttavia
queste tecniche, assieme all’affannoso mescolamento con altre varietà restate, provocarono una rapida degenerazione del Calbigia.
Esso acquisiva le reste e perdeva
vigoria e qualità, per cui si perse nel calderone varietale fino ad
estinguersi.
Ma non del
tutto. Infatti dopo alcune fortunate
ricerche sono venuto a conoscenza che tale grano tenero è ancora
coltivato, in produzioni ridottissime, in un’enclave della Basilicata.
E’ molto
facile che tale frumento sia sopravvissuto in quelle zone perché esse non
subirono i lunghi e gelidi inverni che avevano flagellato e condizionato
l’agricoltura del Nord e Centro Italia.
Ancor di più
il destino ha voluto che proprio nel corso delle mie ricerche, l’amico Domenico
Lofrano, mio vicino di casa e originario di quelle terre, si trovasse la e, non senza fatica, riuscisse
a trovare il seme del calbigia perduto, riportandolo nella nostra Valle.
Verrà
seminato in autunno e, il prossimo anno, se Dio vorrà, potremo verificare se la
sua proverbiale qualità sarà mantenuta anche dalle nostre terre.
Infine una
curiosità collegata all’antica tradizione cerealicola e panificatrice della
Valle Grana.
Esiste una
novella, scritta sul libro “La Valle Grana nei secoli” dell’autore sac. dott.
Ristorto Maurizio, edito da tip. Lit.
Ghibaudo, dove compaiono i nomi di due antichi pani tipici
locali che potrebbero essere riproposti e rivalutati. La leggenda racconta che
un “ pastorello, partendo con il suo gregge per il pascolo, riceve da sua madre
due pani: lu Kulumbet, un pane (bianchissimo)
rotondo per suo cibo, e lu Raviolet,
un pane oblungo (fatto di Barbariato) per il cane “Burel”. Ma l’ingordo ragazzo
mangia i due pani, lasciando senza cibo il fido compagno.
Alla sera,
verso l’imbrunire, si avvicina il lupo e il pastorelle chiede l’aiuto al cane
che gli risponde:
As mingià lu kulumbet e lu raviolet,
uro parte tu dal lubet.
“Hai
mangiato tutto il pane, ora difenditi tu dal lupo”.
In
conclusione è strano che certe volte si ricerchino tipicità locali con
laboriose e lunghe ricerche scritte e orali e non ci si accorga, in
alcuni, che già il nome del luogo dia
precisa informazione delle sue peculiarità.
Si dice che
“Il punto più oscuro è al piede della candela.” Forse è proprio così.
Lucio
Alciati