lunedì 31 marzo 2014

VALLE GRANA: VALLE DEL GRANO

L’etimo, il significato del suo nome, ha probabili origini medioevali allor quando i monaci benedettini stanziati nell’antico priorato  di S.Maria della Valle, nel riportare il credo cristiano dopo le terribili scorribande saracene, iniziarono una importante bonifica del territorio circostante, divenuto, per l’abbandono, fitta roncaglia.
Le terre diedero soddisfazione nella produzione di superbo grano, tanto da proferirgli l’importante nome.  Quel grano non inteso solo come frumento, in quel periodo di primaria importanza, ma anche di segale, avena,orzo, spelta,miglio,farro, sorgo. Cioè di granaglie.
Immaginate una biondeggiante distesa, un manto dorato che copriva l’intero territorio come un luminoso mare baciato da un caldo sole.
La bassa e media valle, da Caraglio  fin verso Monterosso, tranne la zona Palazzasso e le Paschere, perché le prima coperta da una fitta foresta che si estendeva sino a Busca e le seconde sedi di pascoli e gerbidi, divenne un vero e proprio granaio che, probabilmente,  forniva, per mezzo dei suoi numerosi molini, le ricercatissime farine   all’intero Marchesato .
Farine che dovevano essere di ottima qualità, adatte  per profumati pani e per sostanziose polente.
Già perché il termine polenta nasce molto prima dell’arrivo del mais nelle nostre zone. Si produceva con il miglio,il sorgo, l’orzo o tutti i cereali misti fra di loro.
Ma qual’erano le varietà coltivate?
Il miglio, il sorgo, la segale, l’orzo, l’avena, lo spelta non erano identificati con nomi precisi, forse perché reputati cereali minori di qualità.
Al contrario i frumenti antichi erano già catalogati con dei nomi che li contraddistinguevano e venivano dati, prevalentemente, in ragione delle loro caratteristiche fisiche (rosso,bianco, grosso ecc).
E in Valle Grana?
Nella nostra valle abbiamo la fortuna di riscontrare  antiche pitture, come fotografie del passato, che ritraggono, anche se poco nitidamente, questi cereali.
E’ il caso dell’antico stemma del comune di Valgrana, peraltro chiamato così in quanto fulcro e capitale di questa vallata, dipinto sulla facciata della bellissima cappella di S.Bernardo, sita lungo la via che va a Montemale.
E’ il più antico, che io sappia, riferimento e prova di un florido passato cerealicolo della nostra piccola valle dove già la sua conformazione, incredibilmente, ricorda la spiga.
Ebbene questa immagine che ci giunge  dal lontano 1400 raffigura tre spighe riunite che, guardando bene,  potrebbero indicare tre diverse granaglie, allora coltivate. A sinistra  si può scorgere una  spiga con tracce di reste, tipiche della segale o di tutti i cereali restati al centro campeggia una spiga a ferro di lancia che, anche per i colori,  ricorda il sorgo, a destra spicca una spiga senza reste, peculiarità  di un tipo di grano ampiamente coltivato nel medioevo chiamato calbigio (calvo). Quindi questo, presumibilmente,  era il frumento coltivato in antichità nella Valle Grana, comunque molto diffuso, in quell’epoca, in tutt’Italia.
In Lombardia lo chiamavano Tosello, in Toscana Calvello, nel sud Carusello e in Piemonte Bertone, proprio per l’assenza delle reste o peli sulla spiga.
Era di taglia eretta e robusta e  produceva un’ottima farina, bianchissima e povera di glutine.
Si estinse dai nostri luoghi  forse a causa del repentino abbassamento delle temperature, causato dalla storica piccola era glaciale che, in passato,  investi l’Europa e culminò nelle formidabili  e memorabili gelate del periodo 1700-1850.
Infatti, in quel periodo, in valle Grana,  si sviluppò enormemente la coltivazione della segale a scapito di altri cereali, perché più resistente al freddo. In alcuni casi veniva  mischiato al frumento invernale, sperando in annate più miti affinché  si potesse ottenere una farina, chiamata Barbariato, (imbastardito), per pani più digeribili.
Tuttavia queste tecniche, assieme all’affannoso  mescolamento con altre varietà restate,  provocarono una rapida degenerazione del Calbigia. Esso  acquisiva le reste e perdeva vigoria e qualità, per cui si perse nel calderone varietale fino ad estinguersi.
Ma non del tutto. Infatti dopo alcune fortunate  ricerche sono venuto a conoscenza che tale grano tenero è ancora coltivato, in produzioni ridottissime, in un’enclave della Basilicata.
E’ molto facile che tale frumento sia sopravvissuto in quelle zone perché esse non subirono i lunghi e gelidi inverni che avevano flagellato e condizionato l’agricoltura del Nord e Centro Italia.
Ancor di più il destino ha voluto che proprio nel corso delle mie ricerche, l’amico Domenico Lofrano, mio vicino di casa e originario di quelle terre,  si trovasse la e, non senza fatica, riuscisse a trovare il seme del calbigia perduto, riportandolo nella nostra Valle.
Verrà seminato in autunno e, il prossimo anno, se Dio vorrà, potremo verificare se la sua proverbiale qualità sarà mantenuta anche dalle nostre terre.
Infine una curiosità collegata all’antica tradizione cerealicola e panificatrice della Valle Grana.
Esiste una novella, scritta sul libro “La Valle Grana nei secoli” dell’autore sac. dott. Ristorto Maurizio, edito da   tip. Lit. Ghibaudo,  dove  compaiono i nomi di due antichi pani tipici locali che potrebbero essere riproposti e rivalutati. La leggenda racconta che un “ pastorello, partendo con il suo gregge per il pascolo, riceve da sua madre due pani: lu Kulumbet, un pane (bianchissimo) rotondo per suo cibo, e lu Raviolet, un pane oblungo (fatto di Barbariato) per il cane “Burel”. Ma l’ingordo ragazzo mangia i due pani, lasciando senza cibo il fido compagno.
Alla sera, verso l’imbrunire, si avvicina il lupo e il pastorelle chiede l’aiuto al cane che gli risponde:
As mingià lu kulumbet e lu raviolet, uro parte tu dal lubet.
“Hai mangiato tutto il pane, ora difenditi tu dal lupo”.
In conclusione è strano che certe volte si ricerchino tipicità locali con laboriose e lunghe ricerche scritte e orali e non ci si accorga, in alcuni,  che già il nome del luogo dia precisa informazione delle sue peculiarità.
Si dice che “Il punto più oscuro è al piede della candela.” Forse è proprio così.

Lucio Alciati


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